Digiuno, preghiera, carità
- Doroteo Alberti - redattore
- 20 mag 2024
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 8 feb
"Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,
un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio,
non disprezzi"
Salmo 50

Ho sempre fatto una fatica boia a pregare. È un esercizio di cui non ho mai capito l’importanza e l’utilità. L’ho sempre ritenuto un retaggio di tempi andati, una via di mezzo tra scaramanzia e training autogeno.
Non ho dubbi che vi siano parecchie persone che lo considerino tale, anche tra i cattolici.
La pratica religiosa non ha più molta cittadinanza nella giornata dell’uomo moderno: è per me interessante constatare come, con sempre maggior frequenza, sia possibile imbattersi in chi si definisce “una persona spirituale, ma non religiosa”.
Passato di moda l’ateismo, infatti, si sta facendo avanti una mentalità più trendy, ma più inquietante.
Sarà perché la definizione di “persona spirituale, ma non religiosa”, dove con “religioso” normalmente è ciò che si riferisce al culto gradito a Dio, la trovo particolarmente calzante per i demòni.
Intendiamoci, non sto dicendo che chi non prega o chi non crede sia un demonio: sono semplicemente sorpreso di come la formulazione della frase rispecchi perfettamente la concezione tradizionale che la Chiesa ha di quelle creature che, non essendo corporee ma spirituali, hanno voltato le spalle al Creatore per adorare, fondamentalmente, sé stesse.
Intorno ai trent’anni, sulla preghiera ho cambiato idea. Non mi soffermo su quanto sia stata tremenda la condizione esistenziale che ha causato questo mutamento: dico solo che l’incapacità di governare me stesso ha quasi portato alla mia autodistruzione.
Ho rinvenuto un’arma formidabile, sbalorditiva: il digiuno.
Uno strumento quasi finito in soffitta tra i cristiani occidentali, ma da quando l’ho scoperto, non l’ho più abbandonato.
Il campo di battaglia in cui si usa l’arma del digiuno è la lotta contro le passioni.
Il digiuno è sia la rinuncia al cibo, sia altri tipi di rinuncia, come ad esempio al bisogno di far valere con la dialettica le proprie ragioni.
La lingua è dunque veicolo di una duplice tentazione, quella del cibo e quella della giustizia fai-da-te.
I Padri del deserto dicevano che è necessario allenarsi a trattenere quella, per trovare la forza di trattenere il resto di noi stessi nel momento della prova.
Per molto tempo, ho usato il digiuno come “sostitutivo” della preghiera, consapevole del fatto di non riuscire ad impormi quest’ultima, benché le vicende della mia vita mi abbiano razionalmente persuaso della assoluta necessità di pregare.
Indovinate cos’è successo?
È successo quello che diceva san Pietro Crisologo, un dottore della Chiesa.
In un suo famoso discorso, egli afferma: “Tre sono le cose per cui sta salda la fede, perdura la devozione e resta la virtù. La preghiera, il digiuno, la misericordia. Ciò per cui la preghiera bussa, lo ottiene il digiuno, lo riceve la misericordia. Queste tre cose, preghiera, digiuno, misericordia, sono una cosa sola, e ricevono vita l’una dall’altra”.
Ah, la misericordia. Manco a parlarne, mai fatta particolare elemosina in vita mia, né materiale, né tantomeno spirituale: un po’ mi infastidiva e un po’, anche in questo caso, non ho mai creduto servisse a qualcosa.
Questo, fino a quando non mi sono reso conto di avere a mia volta bisogno di essa, e così come il digiuno, l’ho trovata nella Chiesa.
Ad ogni modo, la cosa sorprendente è stata scoprire come fosse vero che queste tre cose sono collegate.
Infatti, dopo aver coltivato per anni il digiuno, mi sono ritrovato la preghiera tra le mani.
“Il digiuno è l’anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno. Nessuno le divida, perché non riescono a stare separate”, continua il Crisologo.
“Perciò chi prega, digiuni. Chi digiuna abbia misericordia. Chi nel domandare desidera essere esaudito, esaudisca chi gli rivolge la domanda. Chi vuol trovare aperto verso di sé il cuore di Dio, non chiuda il suo a chi lo supplica. Ascolti chi ha fame, se vuole che Dio gradisca il suo digiuno. Abbia compassione chi spera compassione. Chi domanda pietà, la eserciti. O uomo, sii tu stesso per te la regola della misericordia. Il modo con cui vuoi che si usi misericordia a te, usalo tu con gli altri. La larghezza della misericordia che vuoi per te, abbila per gli altri”.
Porca miseria, ma questa è la stessa morale della parabola del “servo spietato”!
(Mt 18,23-35)
Quanta misericordia è stata usata nei miei confronti? Moltissima, fidatevi.
Quanto sono stato spietato, in vita mia? Moltissimo, fidatevi.
Questa consapevolezza ha fatto scattare in me una molla: quale è la necessità di tenere a bada le mie passioni, tramite la mortificazione fisica del digiuno, tale è il richiamo a corrispondere a chi grida verso di me.
Dentro di me non ho la forza di elargire una grazia così colossale, come quella di cui io sono stato beneficiario. Tuttavia, anche se in misura minore rispetto ad essa, anche dal mio cuore di pietra hanno iniziato a scaturire lacrime di compassione.
Il primo grido è da parte di Dio: “non ti rendi conto di quanto ti voglio bene? Perché non mi parli? Parlami, e scoprirai quanto ti voglio bene, scoprirai che non sei tu per primo a riconoscere in me un Padre, ma sono io che per primo ho riconosciuto te come mio figlio. Ascoltami, e troverai la pace e la verità”.
Invero ho scoperto che, attraverso la preghiera, si perviene alla pace dell’anima: non ad un’allegrezza transitoria, o ad un sentimento calduccio e illusorio, ma ad uno stato d’animo di consistenza totalmente diversa, duratura, appagante, in grado di cambiare le giornate.
Da quale preghiera ho cominciato? Da quella cosiddetta del pellegrino russo: “Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Essa è contenuta nell’omonimo, imperdibile libro, nel quale ho inaspettatamente ritrovato, mutatis mutandis, la mia stessa storia.
Tale preghiera va ripetuta e ripetuta e ripetuta, innumerevoli volte, silenziosamente.
Irrazionale? Forse sì.
Irragionevole? Assolutamente no!
Fate pure la prova: intorno alla quattrocentesima o cinquecentesima volta che la si recita, sgorgano lacrime di una gioia profondissima, inarrestabile, irresistibile, e di impareggiabile consolazione.
Di pari passo, l’esposizione all’ascolto della Parola di Dio conduce alla sapienza con la S maiuscola, a quella saggezza di cui si legge nel Siracide:
“Avvicìnati ad essa con tutta l’anima
e con tutta la tua forza osserva le sue vie.
Segui le sue orme, ricercala e ti si manifesterà,
e quando l’hai raggiunta, non lasciarla.
Alla fine in essa troverai riposo
ed essa si cambierà per te in gioia”.
Il secondo grido è da parte degli uomini: “non ti rendi conto di quanto soffriamo? Hai finalmente sperimentato anche tu cosa significa soffrire: perché continui a giudicarci male, a guardarci dall’alto al basso, a non perdonare nemmeno un decimo di ciò che è stato perdonato a te?”.
“Il digiuno inaridisce, se inaridisce la misericordia”, conclude il Crisologo.
Mai! Non potrei mai permettermi di farmi sfuggire di mano questo scudo.
Pertanto, prego.
Ed ecco uno dei motivi per cui lo faccio: perché questo non mi accada, perché non perda la memoria di cosa significhino per me digiuno e misericordia, e non finisca così nuovamente preda indifesa delle mie passioni autodistruttive.



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