Il Nome
- Doroteo Alberti - redattore
- 15 mag 2024
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 8 feb

Sul nostro computer abbiamo cliccato migliaia di volte sul tasto "Salva con nome".
Strano modo di identificare la funzione di un tasto. Non mi ci sono mai soffermato...
Perché "salvare con nome"?
Perché senza nome, un file non può essere individuato.
Interessante, anche perché la stessa cosa avviene nel linguaggio umano.
A qualsiasi soggetto, animato o inanimato, gli esseri umani di ogni cultura hanno dovuto affibbiare una parola, seppur nei modi più disparati, pena non riuscire a "salvarselo" nel cervello.
Gli studiosi di linguistica e di antropologia si sono lungamente dedicati a questo aspetto.
Esso può apparire assolutamente specifico, una componente particolare di una disciplina accademica, del tutto specialistica.
Senza dubbio, lo è.
Tuttavia, nessuno può ignorare come assegnare questa o quella parola ai concetti e alle azioni, influenzi la percezione della realtà.
O meglio, chi si interessa della realtà per quella che è, chi vuole andare in fondo alle cose e coglierne la vera sostanza, non può ignorarlo.
Alcuni studiosi sostengono che la lingua sia il filtro attraverso cui passa l'esperienza umana.
Altri invece dicono che essa sia solo una delle componenti della cultura dell'uomo, e che si possa sostanzialmente modificarla a piacere, senza nessun impatto pratico sulla sua vita.
Su questo secondo modo di vedere la questione, non sono affatto d'accordo.
Prendiamo ad esempio la lingua russa.
I russi, e altri popoli slavi, non usano il verbo "possedere", riferendosi agli oggetti.
Dicono У меня есть (pronunciato "u mignà jest"), che significa letteralmente "presso di me c'è".
Dopodiché, indicano la cosa posseduta utilizzando il caso nominativo, quello proprio dei soggetti, cioè di chi paradossalmente compie l'azione, e non il caso accusativo, che è proprio del complemento oggetto, ossia di ciò che l'azione la subisce.
La "tal cosa" non subisce l'azione di essere posseduta da me, e io non esercito nei suoi confronti alcun potere di "possesso", agli occhi degli slavi.
Semplicemente, accidentalmente, temporaneamente quella cosa si trova presso di me.
Non la posseggo.
E' esattamente l'opposto di dire "io ho queste belle cose" poiché in questo caso, nella lingua italiana e in altre, io sono il soggetto che esercita l'azione di possedere, e le cose subiscono questo mio potere.
Volete farmi credere che una simile differenza non eserciti nessun impatto, sul modo di percepire la realtà che mi circonda?
O, addirittura, sul modo di pormi nei confronti delle altre persone?
"Ho proprio una donna fantastica".
"Che donna fantastica si trova presso di me".
Differenze? Ditemi voi...
E questo con i verbi.
Ora torniamo ai nomi, cioè ai sostantivi.
Il nome che diamo a una cosa, o a una persona, magari a noi stessi, influenzerà il modo in cui la percepiamo?
Il nostro nome influenza la percezione che abbiamo di noi stessi?
Quante volte ci è capitato di dire che un certo nome non ci piace, magari perché è quello di una persona che ci ha fatto soffrire?
C'è qualcosa di indubbiamente potente, contenuto in un nome.
Prendete ad esempio il nome Doroteo. In greco significa "Dono di Dio".
Un bambino con questo nome, raggiunta l'età della ragione, si chiederà come mai i genitori lo hanno chiamato così.
Quando ne scoprirà il significato, e se vi sarà sufficiente coerenza tra esso e l'atteggiamento dei genitori, quale percezione potrà mai avere di essi?
E di sé stesso?
Sicuramente, avrà tutte le buone ragioni di sentirsi amato, e di leggere buona parte della sua esistenza sotto questa luce.
Ritengo di non macchiarmi di eresia, quando penso che noi "siamo" il nostro nome, e che in un certo senso anche noi, come i file del nostro computer, siamo "salvati col nome".
Sì, perché la scoperta della nostra salvezza potrebbe passare proprio attraverso il nostro nome, che è lo stesso del nostro santo patrono, colui che compare sul calendario il giorno del nostro onomastico, e che insieme alla data del nostro compleanno scandisce lo scorrere della nostra esistenza terrena.
Le strade più diverse, le storie più pazzesche, le epoche più lontane hanno condotto i nostri santi patroni tutti alla medesima meta.
Qual è questa meta?
Presso gli ebrei c'è un espressione, Kiddush Hashem (in ebraico קידוש השם).
Essa significa "Santificare il Nome".
Quale Nome? Chi è questo Nome?
E' risaputo: gli ebrei tacciono il Nome di Dio, poiché esso è sacro, separato dagli altri nomi, dagli altri soggetti.
Esso ha diversa natura e dignità.
Così separato in dignità che, come detto, neppure lo pronunciano, ma tra i vari modi che hanno per riferirsi a Lui c'è proprio "Hashem", "il Nome".
Così diverso per natura, che non è neanche un nome.
A Mosè che glielo chiedeva, infatti, Dio nel roveto ardente ha detto di sé stesso: "Io Sono".
Il nome di Dio è il Verbo Essere.
Essere. Esistere, in assoluto.
Non essere qui, o là, o così, o cosà, o essere in un certo modo, o in quest'altro, o esserci adesso o in un altro momento.
Semplicemente Essere, totalmente Essere, pienamente Essere.
Ecco la meta a cui siamo tutti chiamati, già da ora e per sempre.



Senza dimenticare quella pietruzza bianca con il nuovo nome del vincitore (Ap 2,17).
Nome nascosto, svelato solo a chi lo riceve.